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Un atteggiamento positivo nei confronti del proprio lavoro di quello dei colleghi e del proprio responsabile, sia esso caporeparto, caposquadra, o anche manager, piccolo imprenditore, socio d’azienda, è la miglior misura della propria motivazione. Qualsiasi attore aziendale, a qualsiasi livello dell’organizzazione, in modo particolare chi ha la responsabilità di altre persone, deve mettersi in gioco per primo in caso di errori tecnici o comportamentali, di incomprensioni o situazioni d’emergenza, momenti di picco o di difficoltà del mercato. E’ improduttivo e talvolta deleterio, cercare nei sottoposti o nei propri superiori, le colpe di quello che accade. Emettere valutazioni o giudizi sommari, cercare colpevoli, è sempre un azione distruttiva, poco razionale, mentre al contrario, analizzando con obiettività le situazioni, confrontandosi e mettendosi nei panni delle altre persone coinvolte, è una azione costruttiva e spesso creativa. Quando le persone, siano essi dirigenti o tecnici, impiegati o operai, sparlano dell’azienda per la quale lavorano, emettono giudizi sommari sull’operato dei colleghi, del proprio referente, danneggiano lo sviluppo dell’azienda e svalorizzano la collaborazione e la condivisione. Certe persone, nelle aziende di servizio, utilizzano questo agire deleterio, anche quando lavorano presso i clienti, a danno dell’immagine aziendale.

Un team, un gruppo/azienda, ha invece bisogno di “coesione e
consapevolezza anche degli obiettivi comuni”.

La motivazione aziendale deve essere fatta invece di buoni esempi e costruttività. Un clima disteso è il primo passo per motivare il personale, ma se in azienda ci sono persone che tutti i giorni lavorano per demolire succede che si lavora per compartimenti stagni.

Il clima disfattista determinato dai comportamenti, di alcune persone, crea un ambiente “negativo” dove si abbassa la motivazione e dove regnano stress e atteggiamenti di sfiducia che si ripercuotono a tutti i livelli aziendali. Una team, una azienda così come una società sportiva, che hanno al loro interno persone poco responsabilizzate, specie in ruoli chiave, persone che danno un esempio sbagliato trasmettendo negatività agli altri, difficilmente hanno un buon livello di motivazione. Il clima aziendale demolito da persone poco responsabilizzate, a qualsiasi livello dell’organizzazione, incapaci di evitare pettegolezzi e critiche non costruttive, diventa davvero “difficile e pesante”, a scapito anche della “salute delle persone”.

In queste situazioni ad esempio anche l’inserimento di persone nuove, talvolta giovani che dovrebbero rappresentare il ricambio dell’azienda, diventa molto difficile a causa dell’ambiente che non accoglie.

In realtà lavorative negative si rischia di lavorare ciascuno per sé a tutto scapito anche del miglioramento organizzativo e di conseguenza della produttività.

Tante volte nelle aziende dove in ruoli di guida ci sono persone poco responsabilizzate, che lavorano solo per lo stipendio, le informazioni non si scambiano o si scambiano in modo parziale, quando serve qualcosa in più in termini di energie, problem solving, creatività, non si collabora, non ci si aiuta o lo si fa se costretti e non per scelta di squadra.

Dalla esperienza lavorativa ho avuto modo di osservare come la “scarsa responsabilizzazione”, talvolta sia frutto dell’operato di persone che non dando giusta importanza al fattore umano, operano d’istinto nelle relazioni e considerano solo la variabile economica.

Questo oltre a contribuire al cattivo clima aziendale, alimenta la fiamma dei comportamenti sbagliati in chi tende al disfattismo ed ha già scarsa motivazione.

Partendo dall’idea che nelle organizzazioni sia necessaria una leadership diffusa, che chiunque abbia compiti di guida di altre persone sia deputato ad avere lui stesso un forte empowerment ( essere responsabilizzato) e favorire quindi negli altri, l’empowerment (la responsabilizzazione), possiamo affermare che i buoni leader, devono essere “leader al servizio”, offrendo il proprio tempo e le proprie risorse alle persone che devono svolgere compiti e progetti, dando loro modo di esprimere nel processo se stessi e di dare direttamente o indirettamente risposte soddisfacenti ai clienti.

Il leader (imprenditore/manager, dirigente, responsabile di settore, reparto, ufficio, , allenatore, atleta senior…) che si pone a disposizione della squadra, comprende, dialoga, supera, e stimola nei collaboratori, la partecipazione, Il contributo personale alla costruzione della squadra e dell’azienda.

In alcune realtà aziendali con le quali ho collaborato, ho avuto modo di osservare che quando l’imprenditore/manager, cambia il modo di porsi e relazionarsi, prendendo consapevolezza dell’importanza delle relazioni interpersonali, della responsabilizzazione e della motivazione, non sempre è automatico che il clima aziendale migliori velocemente! Soprattutto se in azienda ci sono persone disfattiste e “bastian contrari” in perenne e talvolta strumentale opposizione.

Queste persone le si notano specialmente osservando la reazione agli errori dei responsabili aziendali. Sembra paradossale ma quando gli imprenditori/manager, i dirigenti, prendendo coscienza dei loro limiti, si impegnano a sviluppare in azienda, relazioni costruttive, benessere e condivisione, spesso si trovano a dover “combattere” con persone comunque negative incapaci di progredire, di cogliere i cambiamenti positivi e la volontà di miglioramento,

persone che tendono a mantenere alto il livello di critica negativa e denigrazione verso il proprio referente e l’azienda, anche usando l’arma del sarcasmo oltre che del disfattismo. Queste persone spesso veterani dell’azienda, non amano in generale i cambiamenti, le nuove idee e non accettano le persone nuove, soprattutto i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro.

Dunque lo sviluppo dell’empowerment* (responsabilizzazione) passa attraverso la crescita di tutti a qualunque livello di responsabilità si trovi, esso concorre al raggiungimento degli obiettivi di benessere, fatturato, marginalità e posizionamento nel mercato di riferimento.

Come si comprende osservando sul campo le realtà di squadra, i team di progetto, i reparti aziendali, alla base del contributo che le persone possono dare, non vi è solo la capacità tecnica e l’esperienza, ma anche quella di “auto-responsabilizzazione” (traduzione del termine inglese self-empowerment)* intesa come motivazione a costruire, come maturità comportamentale, consapevolezza che la critica fine a se stessa è distruttiva, che l’obiettivo costante del proprio essere in azienda passa dal miglioramento della capacità di “fare squadra”, con colleghi, sottoposti e dirigenti.

In una azienda ideale tutti a qualsiasi livello devono prendere consapevolezza del fatto che ciascuno nel proprio ruolo, lavora per l’obiettivo di soddisfare la propria esigenza di crescere ed essere soddisfatto, di imparare ed essere utile alla società, tenendo presente che questo comportamento, permette di soddisfare il cliente, colui che in fondo permette a tutti di lavorare e prendere un reddito.

*Il termine self-empowerment si può tradurre come:

un processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento della stima di sé stessi, sulla auto efficacia e sulla “autodeterminazione”, cioè la capacità di esprimere anche nel lavoro il meglio di sé indipendentemente dalle difficoltà contingenti, senza lasciarsi condizionare troppo dalle situazioni facili o difficili, semplici o complesse”.

< Ciascuno deve appropriarsi consapevolmente del proprio potenziale > (Luigi D’Arienzo)

“Ci vuole convinzione per le sfide che sembrano impossibili, anche la più complicata: <conquistare consapevolezza  di sé stesso>, può essere affrontata con serena determinazione, perché già provarci ci migliora”. (Luigi D’Arienzo)

Nella mia personale esperienza, ho constatato che nel passaggio da organizzazione artigianale ad aziendale, spesso si commette l’errore di dare tanto spazio al miglioramento delle strutture, delle lavorazioni e delle tecnologie, lasciando poco tempo, alla organizzazione e sviluppo delle persone, delle relazioni, della cultura manageriale, seppur misurata sulle specifiche esigenze aziendali.

Mi capita di osservare che i miglioramenti professionali, comportamentali, relazionali, non vengono vissuti come la premessa dei miglioramenti futuri, ma sono relegati ad un “qualcosa in più”, alcune volte anche scelti come dimostrazione di apertura mentale dell’imprenditore che mette a disposizione dei collaboratori alcuni  momenti di team building o formazione breve, immaginando che possano come panacea stimolare la responsabilizzazione e il clima aziendale ottimale, determinare soluzioni a diatribe e conflitti,  a demotivazione e sfiducia.

“Gli operai di oggi non sembrano accontentarsi di lavori convenzionali e ripetitivi, vogliono che il loro lavoro riguardi anche aree creative quali il pensare e decidere da soli come svolgere il proprio lavoro. La gente ha bisogno di lavorare con la mente e non solo con il corpo. Occorre rivedere il modo convenzionale di considerare le funzioni del dirigente e dell’operaio”. (Naomi Yamaki – ex presidente della Mitsubishi Space Software)

Questo errore si nota maggiormente quando le imprese, nel passaggio da organizzazione artigianale ad aziendale, fanno la scelta della qualità, certificandosi. In questo caso è palese il come si dia importanza al miglioramento di processi e tecnologie, non considerando invece che il principio del “miglioramento continuo”, alla base della qualità organizzativa e produttiva, è “veramente strategico” se trasmesso alle persone che operano nelle organizzazioni.

Chi desidera avere una “buona azienda”, deve stimolare, ispirare, condividere con i collaboratori, (manager, dirigenti, tecnici, operai, impiegati, magazzinieri, commerciali…) l’idea che il primo vero miglioramento continuo da mettere in campo è quello relativo alle proprie competenze ed ai propri comportamenti.

Prendere coscienza di questo, significa progettare e programmare, con le persone, un lavoro costante e continuativo, utilizzando competenze specifiche da reperire e valorizzare all’interno o all’esterno della propria organizzazione.

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L’imprenditore/manager che fa sua questa cultura, riesce a trasmettere e implementare meglio valori comportamenti, competenze, che possono incidere sulla motivazione e sulla responsabilizzazione degli attori aziendali”

L’esperienza concreta in alcune aziende con le quali è stato avviato il cambiamento organizzativo, ha mostrato che questa strategia stimola i quadri dirigenti, manager, responsabili di reparto e chiunque abbia compiti di guida di altre persone, (commerciali, tecnici, amministrativi, logistici, capi commessa, capi cantiere, capi reparto. etc…) a considerare gli aspetti di comunicazione, relazionali, motivazionali e di responsabilizzazione come parte integrante della propria professionalità, elementi da trasmettere a tutti i loro collaboratori. (Luigi D’Arienzo)

“Per incamminarsi in maniera rivoluzionaria sulla strada del miglioramento occorre che il miglioramento diventi un dovere, una parte del lavoro quotidiano, scritto nel mansionario di ognuno”. (Juran Joseph – guru della qualità totale)