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Un atteggiamento positivo nei confronti del proprio lavoro di quello dei colleghi e del proprio responsabile, sia esso caporeparto, caposquadra, o anche manager, piccolo imprenditore, socio d’azienda, è la miglior misura della propria motivazione. Qualsiasi attore aziendale, a qualsiasi livello dell’organizzazione, in modo particolare chi ha la responsabilità di altre persone, deve mettersi in gioco per primo in caso di errori tecnici o comportamentali, di incomprensioni o situazioni d’emergenza, momenti di picco o di difficoltà del mercato. E’ improduttivo e talvolta deleterio, cercare nei sottoposti o nei propri superiori, le colpe di quello che accade. Emettere valutazioni o giudizi sommari, cercare colpevoli, è sempre un azione distruttiva, poco razionale, mentre al contrario, analizzando con obiettività le situazioni, confrontandosi e mettendosi nei panni delle altre persone coinvolte, è una azione costruttiva e spesso creativa. Quando le persone, siano essi dirigenti o tecnici, impiegati o operai, sparlano dell’azienda per la quale lavorano, emettono giudizi sommari sull’operato dei colleghi, del proprio referente, danneggiano lo sviluppo dell’azienda e svalorizzano la collaborazione e la condivisione. Certe persone, nelle aziende di servizio, utilizzano questo agire deleterio, anche quando lavorano presso i clienti, a danno dell’immagine aziendale.

Un team, un gruppo/azienda, ha invece bisogno di “coesione e
consapevolezza anche degli obiettivi comuni”.

La motivazione aziendale deve essere fatta invece di buoni esempi e costruttività. Un clima disteso è il primo passo per motivare il personale, ma se in azienda ci sono persone che tutti i giorni lavorano per demolire succede che si lavora per compartimenti stagni.

Il clima disfattista determinato dai comportamenti, di alcune persone, crea un ambiente “negativo” dove si abbassa la motivazione e dove regnano stress e atteggiamenti di sfiducia che si ripercuotono a tutti i livelli aziendali. Una team, una azienda così come una società sportiva, che hanno al loro interno persone poco responsabilizzate, specie in ruoli chiave, persone che danno un esempio sbagliato trasmettendo negatività agli altri, difficilmente hanno un buon livello di motivazione. Il clima aziendale demolito da persone poco responsabilizzate, a qualsiasi livello dell’organizzazione, incapaci di evitare pettegolezzi e critiche non costruttive, diventa davvero “difficile e pesante”, a scapito anche della “salute delle persone”.

In queste situazioni ad esempio anche l’inserimento di persone nuove, talvolta giovani che dovrebbero rappresentare il ricambio dell’azienda, diventa molto difficile a causa dell’ambiente che non accoglie.

In realtà lavorative negative si rischia di lavorare ciascuno per sé a tutto scapito anche del miglioramento organizzativo e di conseguenza della produttività.

Tante volte nelle aziende dove in ruoli di guida ci sono persone poco responsabilizzate, che lavorano solo per lo stipendio, le informazioni non si scambiano o si scambiano in modo parziale, quando serve qualcosa in più in termini di energie, problem solving, creatività, non si collabora, non ci si aiuta o lo si fa se costretti e non per scelta di squadra.

Dalla esperienza lavorativa ho avuto modo di osservare come la “scarsa responsabilizzazione”, talvolta sia frutto dell’operato di persone che non dando giusta importanza al fattore umano, operano d’istinto nelle relazioni e considerano solo la variabile economica.

Questo oltre a contribuire al cattivo clima aziendale, alimenta la fiamma dei comportamenti sbagliati in chi tende al disfattismo ed ha già scarsa motivazione.

Partendo dall’idea che nelle organizzazioni sia necessaria una leadership diffusa, che chiunque abbia compiti di guida di altre persone sia deputato ad avere lui stesso un forte empowerment ( essere responsabilizzato) e favorire quindi negli altri, l’empowerment (la responsabilizzazione), possiamo affermare che i buoni leader, devono essere “leader al servizio”, offrendo il proprio tempo e le proprie risorse alle persone che devono svolgere compiti e progetti, dando loro modo di esprimere nel processo se stessi e di dare direttamente o indirettamente risposte soddisfacenti ai clienti.

Il leader (imprenditore/manager, dirigente, responsabile di settore, reparto, ufficio, , allenatore, atleta senior…) che si pone a disposizione della squadra, comprende, dialoga, supera, e stimola nei collaboratori, la partecipazione, Il contributo personale alla costruzione della squadra e dell’azienda.

In alcune realtà aziendali con le quali ho collaborato, ho avuto modo di osservare che quando l’imprenditore/manager, cambia il modo di porsi e relazionarsi, prendendo consapevolezza dell’importanza delle relazioni interpersonali, della responsabilizzazione e della motivazione, non sempre è automatico che il clima aziendale migliori velocemente! Soprattutto se in azienda ci sono persone disfattiste e “bastian contrari” in perenne e talvolta strumentale opposizione.

Queste persone le si notano specialmente osservando la reazione agli errori dei responsabili aziendali. Sembra paradossale ma quando gli imprenditori/manager, i dirigenti, prendendo coscienza dei loro limiti, si impegnano a sviluppare in azienda, relazioni costruttive, benessere e condivisione, spesso si trovano a dover “combattere” con persone comunque negative incapaci di progredire, di cogliere i cambiamenti positivi e la volontà di miglioramento,

persone che tendono a mantenere alto il livello di critica negativa e denigrazione verso il proprio referente e l’azienda, anche usando l’arma del sarcasmo oltre che del disfattismo. Queste persone spesso veterani dell’azienda, non amano in generale i cambiamenti, le nuove idee e non accettano le persone nuove, soprattutto i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro.

Dunque lo sviluppo dell’empowerment* (responsabilizzazione) passa attraverso la crescita di tutti a qualunque livello di responsabilità si trovi, esso concorre al raggiungimento degli obiettivi di benessere, fatturato, marginalità e posizionamento nel mercato di riferimento.

Come si comprende osservando sul campo le realtà di squadra, i team di progetto, i reparti aziendali, alla base del contributo che le persone possono dare, non vi è solo la capacità tecnica e l’esperienza, ma anche quella di “auto-responsabilizzazione” (traduzione del termine inglese self-empowerment)* intesa come motivazione a costruire, come maturità comportamentale, consapevolezza che la critica fine a se stessa è distruttiva, che l’obiettivo costante del proprio essere in azienda passa dal miglioramento della capacità di “fare squadra”, con colleghi, sottoposti e dirigenti.

In una azienda ideale tutti a qualsiasi livello devono prendere consapevolezza del fatto che ciascuno nel proprio ruolo, lavora per l’obiettivo di soddisfare la propria esigenza di crescere ed essere soddisfatto, di imparare ed essere utile alla società, tenendo presente che questo comportamento, permette di soddisfare il cliente, colui che in fondo permette a tutti di lavorare e prendere un reddito.

*Il termine self-empowerment si può tradurre come:

un processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento della stima di sé stessi, sulla auto efficacia e sulla “autodeterminazione”, cioè la capacità di esprimere anche nel lavoro il meglio di sé indipendentemente dalle difficoltà contingenti, senza lasciarsi condizionare troppo dalle situazioni facili o difficili, semplici o complesse”.

< Ciascuno deve appropriarsi consapevolmente del proprio potenziale > (Luigi D’Arienzo)

“Il lavoro di squadra, elemento chiave per il successo o il fallimento”.

Collaborazione azienda

I responsabili di reparto, di commessa, di progetto, di cantiere etc…hanno il compito di infondere una buona atmosfera all’interno della propria squadra per migliorare la qualità del lavoro, limitare l’assenteismo e meglio sopportare i periodi di stress.
Si può metaforicamente paragonare la conduzione di una squadra alla guida di una auto. Se tutto funziona al meglio l’auto ci porta a destinazione, nel tempo giusto e in sicurezza!
Il concorso di tutte le parti, il mettere in comune le rispettive competenze per raggiungere lo stesso obiettivo, permettono di esprimere tutta la forza della squadra. Quando ciascuno fa bene il proprio compito, nei tempi giusti ed in sicurezza, si riducono gli attriti, le dispersioni di energia, si raggiunge la meta.

“Senza lavoro di squadra, non si riesce a gestire progetti, commesse, reparti”!

Un responsabile, oltre alla conoscenza del lavoro che svolge, deve possedere la  capacità di controllare e dare indicazioni, indirizzare. Ma per  favorire davvero il “buon funzionamento del team”, la corretta progressione e la ottimale realizzazione del progetto, deve contribuire alla creazione di un “clima collaborativo”, quello che sinteticamente si definisce “lavoro di squadra”.
I molti casi reali osservati, mi consentono di affermare infatti che per gestire un team, oltre alle competenze specifiche della attività che si svolge, è fondamentale acquisire o implementare, le competenze atte a “guidare” le persone coinvolte nel team, gruppo o squadra.

In linea generale si può affermare che un responsabile ha il compito di:

• assegnare ruoli
• fissare obiettivi
• fissare scadenze
• anticipare i problemi
• gestire gli imprevisti
• informare
• ascoltare
• coinvolgere
• dissipare le tensioni
• motivare

Un responsabile di progetto, di commessa, di reparto, d’officina, ha come obiettivo il fare in modo che la squadra a lui affidata abbia successo, in questo ruolo deve acquisire e implementare competenze  per:

•  Comunicare e promuovere la comunicazione
• Organizzare
• Fidarsi e delegare promuovendo le capacità dei suoi collaboratori
• Riconoscere fallimento e successo.

Comunicazione

Team work creativo
“Prima di tutto “Il sorriso” che è comunicativo, saper mettere buon umore e sorridere è un ottima partenza”!

Elemento essenziale per costruire la squadra è “promuovere una buona comunicazione

È essenziale incoraggiare i membri del team a condividere idee, comunicare meglio tra loro e lavorare in modo collaborativo. Favorire gli scambi rende la squadra più produttiva, sviluppa la sua capacità di innovare e può far risparmiare tempo prezioso.
Una buona comunicazione aiuta a sviluppare la fiducia tra i membri del team e un senso di lealtà. Tutto ciò offre un ambiente di lavoro piacevole e incoraggia l’impegno di tutti nei confronti del progetto, innescando un circolo virtuoso.

Per determinare questo occorre conoscere e combinare diversi metodi di comunicazione, stimolare anche i collaboratori a migliorarsi. Tenendo presente che la comunicazione nasce dall’ascolto. Ascoltare dunque i collaboratori per stimolare la loro capacità di “ascoltarsi reciprocamente”, è la base per la comunicazione efficace.
Lavorare in un ambiente favorevole alla comunicazione, un semplice esempio, se non si è già in uno spazio aperto, può essere quello di lasciare aperta la porta del proprio ufficio, per  incoraggiare i collaboratori a venire a trovarti in qualsiasi momento per discutere i progressi del progetto, chiedere aiuto o consigli.
La comunicazione tra i membri di un team determina buone relazioni, le buone relazioni migliorano la comunicazione rendendola efficace, questo circolo virtuoso è essenziale al lavorare insieme con efficienza ed efficacia.

Organizzazione

Circo

“I due fattori più importanti per il successo di un’organizzazione, sono l’atteggiamento dei suoi uomini e la loro capacità di adattarsi”!

Incontrare i collaboratori ciclicamente e nelle situazioni necessarie al miglioramento organizzativo. Incontri brevi,  con un obiettivo specifico in modo da renderli produttivi.
Ciclicamente, incontri anche più lunghi, ma tenuti entro il tempo stabilito per la riunione, per valutare lo stato delle cose, gli elementi positivi e negativi, stabilire l’impegno delle persone, i compiti da svolgere nel prosieguo.

L’importante in questo tipo di incontri diventa scambiare idee, osservazioni, stimolare i miglioramenti da fare in attività specifiche, complimentarsi col gruppo o con il singolo, su precise azioni positive, sub-obiettivi raggiunti.
Questi incontri operativi,  sono da considerarsi anche azioni di team building, perché permettono a tutti di esprimersi, essere ascoltati, scambiare pensieri, confrontarsi, condividere.
Un responsabile di progetto, un responsabile di team, deve creare anche opportunità per riunire la squadra in un’atmosfera amichevole e informale. La socialità consente ai membri del team di rilassarsi insieme, lontano dall’ambiente di lavoro, dalle loro responsabilità, dalle restrizioni e dalle barriere gerarchiche.
Specie all’inizio di un progetto, quando si forma un team di lavoro, quando si inseriscono, nel team persone nuove, è costruttivo organizzare attività per rompere il ghiaccio e trascorrere del tempo insieme, aiuta a creare un forte senso di appartenenza.
Andare a pranzo insieme quando possibile, oppure ogni tanto bere qualcosa assieme dopo il lavoro, o praticare uno sport di squadra (calcio, basket, …) tutti insieme, concorre a creare e rafforzare lo spirito di squadra, dando a tutti l’opportunità di conoscersi meglio.

Fiducia

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“Fiducia, rispetto e riconoscimento sono valori forti che motivano la squadra in modo efficace”.

Par far si che le attività di riunione ed incontro siano vissute come costruttive e gratificanti, occorre incoraggiare le iniziative, permettere ai membri della squadra, quando necessario, di richiederle ed organizzarle, sia riunioni di lavoro che ludiche.
Questo premette che il responsabile sappia fidarsi dei suoi collaboratori, che creda in loro.

Imporre la propria autorità non funziona in generale e soprattutto con le nuove generazioni. Per avere la piena disponibilità ed il meglio dei propri collaboratori, per coinvolgerli realmente, occorre aver fiducia in loro.
Creare un clima di fiducia reciproca all’interno della squadra, significa sapersi affidare alle capacità, ai talenti e al potenziale di ciascuno dei collaboratori. Significa mostrare che si crede in loro! Solo in questo modo essi si sentiranno “responsabilizzati” e pronti a lavorare con grande impegno per raggiungere gli obiettivi.
Certamente questo stando attenti a non delegare tutto, dando l’impressione di non essere coinvolti, mostrando ai propri collaboratori che si è lì per loro e che possono contare sul proprio “capo”, che deve comunque monitorare e convalidare il raggiungimento degli obiettivi di ciascuno, all’interno di quelli finali di progetto. In fondo la fiducia deve essere reciproca.

Riconoscimento
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“Credo che le persone lavorino per essere soddisfatte e che sia un grande errore pensare che l’unico modo per ricompensarle per il loro lavoro siano i soldi. Le persone hanno bisogno del denaro, ma vogliono anche essere felici nel loro posto di lavoro e orgogliose di ciò che fanno”. (Akio Morita – fisico e imprenditore giapponese)

Nella guida della squadra sono importanti il “riconoscimento e la gratificazione”.
Dai piccoli gesti generali a quelli specifici, dalla gratificazione della squadra a quella individuale. La difesa dell’operato del team o del singolo, quando in linea con quanto concordato, l’assunzione delle proprie responsabilità di leader quando si incontrano difficoltà, soprattutto non previste, che danno adito ad errori, sono azioni  la che rafforzano la fiducia.

Un suggerimento è quello di festeggiare le vittorie! Festeggiare il successo di un progetto o il successo di un obiettivo difficile. rafforza la squadra e l’impegno”.

Esperienze in realtà diverse  mi hanno fatto comprendere che poche persone mirano solamente a timbrare il cartellino, a “tirare” le otto ore e aspettare lo stipendio alla fine del mese.

La maggior parte delle persone desiderano essere tenute nella giusta considerazione, hanno il  desiderio di far bene il proprio compito per sentirsi soddisfatte.

Un buon responsabile deve guidare e controllare che i compiti dati siano eseguiti a regola d’arte, ma avere ben chiaro che per le persone l’essere stimato dagli altri, oltre che da se stesso,  concorre a soddisfare il  bisogno di appartenenza e realizzazione.
Il riconoscere ai collaboratori il lavoro fatto, i rischi che hanno preso e i risultati che hanno ottenuto crea un ambiente di lavoro positivo, motivato e produttivo. (Luigi D’Arienzo)

Siamo perchè ci relazioniamo

“Siamo perché ci relazioniamo”, difatti un tessuto denso di relazioni umane contribuisce allo sviluppo della persona in tutti gli ambiti.

In azienda, come in qualsiasi organizzazione anche sportiva, società di servizi etc…, l’ottimizzazione delle relazioni umane favorisce l’interdipendenza di tutte le funzioni svolte permettendo di raggiungere gli obiettivi previsti nelle migliori condizioni possibili.
Dunque la sintonia tra relazioni umane e interdipendenza, è uno degli elementi essenziali allo sviluppo delle organizzazioni, ne garantiscono il successo e la durata nel tempo, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla natura della sua attività.

Il dipendente, il collaboratore, il manager, il dirigente, lo stesso imprenditore quando è operativo, hanno bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Di conseguenza, ciascuno col proprio bagaglio culturale (valori, regole, credenze, atteggiamenti etc…) si pone l’intento di avere con gli altri “buoni rapporti” sviluppando spesso anche un attaccamento emotivo.

I rapporti umani in azienda sono funzionali e strategici, servono sia all’azienda che a coloro che vi lavorano. In questa ottica, le aspettative di chi opera e dell’azienda, possono essere soddisfatte se “in sintonia”, se gli obiettivi ed i risultati concreti che reciprocamente ci si aspetta risultano efficaci .

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Osservo continuamente, lavorando nelle piccole e medie imprese, che le competenze tecniche, scientifiche o amministrative, seppur importanti, non bastano, per trovare un posto all’interno dell’azienda. Si comprende bene che oltre alla dimensione professionale, le persone cercano la dimensione personale, per cui diventa necessario che imprenditori e manager, si impegnino in modo costante e continuativo, non episodico, ad accrescere il “funzionamento culturale” dell’azienda.
E’ palese che la globalizzazione e l’espansione della migrazione in tutto il mondo, stimoli approcci estesi alle diverse culture di dipendenti. Questo cambiamento epocale, diventa gestibile e possibile, nelle aziende che abbiano già acquisito e sviluppato precedentemente la “cultura delle relazioni”, favorendo la comunicazione, l’appartenenza e la soddisfazione, in chi lavora e trae da questo motivo per accrescere la propria motivazione.

Le relazioni contribuiscono fortemente all’ interfacciamento delle funzioni ed alla fluidità dei processi, anche garantendo solidarietà, assistenza reciproca e di conseguenza lo sviluppo di cultura del problem solving e minore necessità di interventi correttivi da parte di chi gestisce processi e persone.

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La cura e lo sviluppo delle relazioni umane in azienda, permette di poterla definire anche una “ricchezza culturale”, per la società in generale, perché favorisce la possibilità di espressione di identità e culture, degli “attori sociali”, delle persone che vi lavorano.

Questi desiderando collaborare e migliorare, si emancipano, sentendosi sicuri e riconosciuti, contribuendo così al miglioramento di tutto il tessuto sociale nel quale vivono.
“Riconoscere l’altro” la parola d’ordine necessaria in qualsiasi organizzazione intesa come strumento per raggiungere obiettivi. Nelle aziende, società di servizi, sportive, il riconoscimento dell’altro è un volano di cooperazione, di sviluppo effettivo contribuendo al rafforzamento delle relazioni umane, al consolidamento dell’interdipendenza delle funzioni, garantisce sostenibilità e prontezza nelle risposte ai cambiamenti tecnologici, alle esigenze dei mercati, culturali e sociali.

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Il mio punto di vista nasce da esperienze dirette di lavoro che mi hanno permesso di osservare nelle organizzazioni la carenza di persone che abbiano “fiducia in se stessi”, nei loro colleghi, nella stessa organizzazione di cui fanno parte. Persone in grado di organizzare il lavoro “insieme”, comunicare meglio, supervisionare i propri collaboratori al fine di creare un vero rapporto di fiducia e prendere decisioni responsabili.

Per questo penso che bisogna in modo professionale e concreto, operare al fine di valorizzare, diffondere, implementare, le capacità di comunicazione, di cooperazione, le interrelazioni funzionali, per determinare nelle organizzazioni, un equilibrio, il più possibile armonico.

Necessita un “equilibrio armonico” tra l’azienda e il suo ambiente interno ed esterno

Questo equilibrio favorisce ampiamente le buone prestazioni di tutti i servizi e le unità di produzione, contribuisce alla crescita e alla prosperità dell’organizzazione, promuove una atmosfera anche “attraente” per le risorse e la comunità e può essere un terreno fertile per permettere la crescita dei giovani, immergendoli nella cultura del “bene comune”, di relazioni positive tra le risorse umane, interrelazione costruttive tra, gruppi, team e funzioni.

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Ottenere questo risultato, richiede impegno e dedizione, un lavoro continuo di miglioramento, un approccio “Kaizen” alle risorse umane, in cui il ruolo della leadership, assume fondamentale importanza, specie se l’essere leader diventa una cultura diffusa nella organizzazione, non centrata su una o poche figure, ma condivisa da chiunque abbia responsabilità di guida e gestione di altre persone.
In questo modo la presenza, l’ascolto, l’esempio, diventano capillari, concorrendo a mantenere le relazioni amichevoli e costruttive, prevenire e gestire le situazioni di conflitto che spesso determinano, cattivo funzionamento, squilibri e diseconomie.

Innegabilmente gli uomini, ancor prima che il capitale o le materie prime, alimentano la crescita dell’azienda.

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Si sente spesso dire che il successo di ogni organizzazione, sia legato alla qualità delle risorse umane che la compongono, ma l’esperienza nelle piccole e medie imprese, mi ha convinto che al di là delle parole c’è poco di “sostanza” in questo e credo ci sia bisogno di un “cambio culturale vero”.
Occorre rendersi conto che mantenere in “equilibrio” una macchina, richiede meno impegno che mantenere in equilibrio le relazioni umane. La macchina si ripara e non ha memoria del suo guasto, un maltrattamento, la disattenzione, il non ascolto, un conflitto, lasciano comunque traccia, hanno costi importanti e talvolta non sono facilmente recuperabili.

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Le organizzazioni che si illudono, senza mettersi in discussione, di risolvere la carenza di relazioni efficaci, semplicemente attraverso momenti di team building, corsi, seminari , incontri con specialisti, commettono a mio avviso un errore grande, disperdendo energie e contribuendo al mantenimento di uno status quo, inefficiente.

Perseguire costantemente l’efficienza delle risorse umane in una organizzazione, significa applicare i principi kaizen dei piccoli e quotidiani “miglioramenti”, anche con le persone, dal direttore generale o amministratore delegato al piccolo imprenditore, dal capocantiere al manager, dall’operaio al caporeparto, dall’allenatore all’atleta.

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“Come esseri umani siamo in grado di raggiungere risultati all’apparenza impossibili, in situazioni particolari. Chi guida altre persone se comprende questo, può portare il singolo a scoprire le possibilità “speciali” per allenarle ed utilizzarle.

In molte occasioni, nella vita in generale come in quella sportiva, osservando persone in situazioni limite, di grande stress, di pericolo, persone con problematiche fisiche o mentali, ci si meraviglia davanti ai grandi gesti, alle reazioni straordinarie e risultati eccellenti, che essi riescono a raggiungere, al punto da sembrare impossibili.

Queste persone non sono eccezioni e non vivono in una specie di “olimpo” irraggiungibile dagli altri, ma vengono spesso considerate “straordinarie”, come se vivessero in un altro mondo rispetto a noi.

Storicamente mitizziamo altri uomini, le loro capacità, le azioni, le gesta, lo facciamo perché abbiamo bisogno dello straordinario, di qualcosa che ci tolga dall’impotenza, ci rassicuri. In realtà operiamo una sorta di “rimozione”, senza porci domande, che potrebbero invece aiutarci a comprendere ed approfondire il “perché e come”, queste persone hanno affrontato e superato ostacoli apparentemente impossibili.

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Ci sono uomini e donne, che per una serie di combinazioni genetiche, mentali/fisiche/psicologiche, riescono a fare cose non ripetibili in modo simile da altri, ma questi difatti, se da un lato meravigliano, non stupiscono. Stupiscono invece proprio le persone a cui non riconosciamo quelle combinazioni straordinarie di capacità, anzi a volte le sottovalutiamo perché ci sembrano anche più lontani da quello che , erroneamente, consideriamo “normalità”.

I comportamenti, le azioni, i risultati, di queste persone, aiutano a porsi domande sul “perché e come”, certi comportamenti siano possibili.

Nel mio lavoro ho cercato di approfondire questo, rendendomi conto che le capacità apparentemente straordinarie, sono molto umane, possono essere portate a livello cosciente ed implementate.

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Questo ha stimolato in me il desiderio di provare a trasmettere alle persone ed alle organizzazioni con le quali lavoro, una serie di possibili strumenti per acquisire queste competenze “umane”. Inizialmente questo richiede impegno, perché occorre mettersi in discussione con umiltà e consapevolezza, creando la base per riconoscere ed allenare le qualità apparentemente straordinarie che abbiamo.

E’ riduttivo e semplicistico descrivere un metodo generale per arrivare alla consapevolezza, perché ciascuna persona ha un suo modo, i suoi filtri di interpretazione di sé e della realtà, ma porgo qui un suggerimento a chi nella vita, in ambito lavorativo o sportivo, intende provare ad individuare ed implementare queste capacità umane.

L’errore comune che molti fanno è pensare che usare queste qualità “sempre”, sia il modo migliore di ottenere risultati, in qualsiasi situazione e momento. Non è così a mio avviso, ciò non è possibile, anzi risulta deleterio a lungo andare per l’ottenimento di grandi risultati. Non si vincono le gare automobilistiche correndo sempre al massimo del regime possibile. Spesso accade che ci si possa illudere ad inizio gara di poter vincere, ma non è così, l’auto si danneggia, si usura e non arriva a fine gara.

L’esperienza, ha mostrato che una volta stimolato una persona a “sentire” ed implementare queste capacità, occorre trasmettere l’idea di utilizzarle al momento opportuno, come un “overboost”, una “super concentrazione” nei momenti davvero importanti.

Questo significa che qualsiasi attività, per essere svolta al meglio deve innanzitutto basarsi sulle capacità e competenze acquisite con grande impegno e dedizione, attraverso le esperienze, la formazione, il lavoro, lo studio l’allenamento sportivo.

Questo strato di competenze, capacità ed energie, allenato al meglio, è quello che tutti i giorni occorre utilizzare, per fare bene la propria attività, ci consente di affrontare le difficoltà nel lavoro e nello sport, in modo ottimale, utilizzando anche a diverse gradazioni e livelli le nostre energie.

Nei momenti “speciali” invece occorre mettere in campo la “riserva di energia, la speciale concentrazione, la determimazione estrema“, quello che possiamo definire un “overboost umano”, quello che in alcune persone vediamo in azione quando ci stupiscono.

E’ molto importante avere la “consapevolezza” di questa “riserva speciale”, perché oltre a darci la possibilità di superare momenti, situazioni, ostacoli, apparentemente impossibili, produce su di noi, un effetto formidabile influenzando in modo automatico, “Autostima e flow”. La consapevolezza di avere una “eccezionale riserva” di energia, imparando ad utilizzarla nelle occasioni giuste, funziona come una “endorfina”, permettendoci, prima ancora di risolvere i problemi straordinari, di ottimizzare tutte le capacità e competenze che utilizziamo, rafforzando la nostra motivazione.

Avendo esperienza diretta anche di basket, ho osservato che gli allenatori, a volte, per raggiungere i risultati, tendono ad esasperare lo sforzo fisico e mentale, pensando di vincere le gare, richiedendo agli atleti costantemente la “profusione straordinaria di energie”. È un illusione pensare che le energie siano infinite e spesso succede che questo sistema non porti ai risultati attesi, oppure che non si arrivi mai fino in fondo alla gara o al campionato.

L’allenatore, a mio avviso, per essere davvero incisivo, deve tenere conto di quanto sopra scritto, allenando nel migliore dei modi gli atleti e la squadra, preparando meticolosamente ogni aspetto, per poter affrontare al meglio possibile ogni gara, ma non chiedendo di attingere continuamente alla “riserva speciale” di energia psico/fisica/mentale di atleti e squadra, rischiando seriamente di non arrivare mai al traguardo.

Certo non è cosa semplice per un allenatore, come per un manager o un imprenditore, avere le competenze ed il tempo per “lavorare” su queste qualità. Tuttavia però se non ha nello staff qualcuno che abbia competenze ed esperienza che lo collabori nella conduzione, nell’allenamento mentale delle persone, deve implementare le sue conoscenze e competenze “soft”, ottimizzando, se possibile, la gestione del suo tempo, dedicandosi oltre che alle necessarie relazioni interne ed esterne, al miglioramento mentale del singolo e del team

Quanto scritto sopra, con le opportune differenziazioni, è valido anche per coloro che in azienda guidano persone, team e progetti. Anzi proprio l’esperienza nelle aziende mi ha portato a comprendere che la consapevolezza di potercela fare, attingendo quando necessario ad una sorta di “overboost umano” di energia, può portare a risultati inattesi.

Un suggerimento a tutti coloro che guidano persone che non hanno molte competenze specifiche di ” allenamento mentale”: potrebbe essere utile fare un percorso personale nella scoperta delle proprie “capacità speciali”, abituandosi ad utilizzarle nei momenti “topici” di una gara o di un campionato, quando in azienda occorre superare un conflitto, consegnare un lavoro straordinario, prendere una commessa importantissima.

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Questa esperienza personale vi permetterà poi di stimolare i vostri collaboratori, atleti, i membri del vostro team, a individuare ed utilizzare bene le loro energie speciali. Vi consentirà anche di trasmettere l’idea che se tutti possono attingere al proprio “overboost”, si riesce “assieme” a moltiplicare le energie complessive di tutto il team che diventa esponenzialmente più potente, nei momenti “clou”, quando occorre chiudere o recuperare una partita, affrontare partite più difficili o più importanti di altre, quando occorre gestire una situazione di emergenza economica, sopperire alla mancanza di un collega, operare un cambio di strategia aziendale etc…

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“La leadership è definita come un processo di influenza delle relazioni, con individui che condividono obiettivi comuni e si mobilitano per raggiungere i suddetti obiettivi o modifiche desiderate” (Yukl, 2006; Northouse, 2007.

“Essa nel passato era spesso associata alla “personalità” del leader, in particolare al cosiddetto “carisma”, che assumeva una connotazione “magica”, la teoria dei tratti di personalità, difendeva l’idea dell’esistenza di leader predisposti con tratti caratteriali e abilità innate, di intelligenza perspicacia, attenzione, responsabilità, intraprendenza, costanza, socievolezza” (Stogdill, 1948).

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In estrema sintesi possiamo affermare che un leader, è tale e riconosciuto dai propri pari se dispone di:

Capacità di comunicazione, conoscenza dei meccanismi di funzionamento delle relazioni interpersonali nella realtà in cui opera.

• Abilità specifiche: capacità ed esperienza specifica dell’attività che esercita e gestisce.

• Comportamento coerente ai principi che suggerisce.

“Il leader deve essere capace di trasformare coloro che guida, i suoi sostenitori, accompagnandoli nel superamento dei propri limiti. (Bass 1985)”.

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Questo richiede impegno nell’allenamento di capacità come:

  • estroversione
  • intelligenza emotiva
  • empatia
  • concentrazione
  • ascolto attivo
  • saper coinvolgere
  • motivare

Per esperienza personale, ho notato che quando un leader possiede l’abilità di stimolare ed accompagnare il miglioramento del team, favorisce nelle persone la crescita dell’autostima, mobilitando in loro risorse emotive, fisiche e mentali, fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi comuni.

Purtroppo sia in ambito aziendale che sportivo, ho trovato poca consapevolezza e reale conoscenza delle abilità necessarie ad un leader. Questo spesso è frutto di ritrosia, poca capacità di mettersi in discussione, in alcuni casi anche di presunzione.

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Leader non si nasce, si possono avere delle predisposizioni, ma lo si diventa. Occorre conoscere, comprendere, “allenarsi” ad esserlo, con impegno e coerenza, con cultura e studio.

Molte persone con ruoli di guida e di potere, sia in azienda che nello sport, parlano di leadership senza avere una profonda cultura specifica, rimanendo nel migliore dei casi,  ancorati a vecchi e frammentati concetti di leadership.

Chi ha il ruolo di scegliere eventuali team leader, project manager, leader aziendali, per i motivi suddetti, rischia di scegliere la persona inadatta al ruolo, e quando anche casualmente riesce, difficilmente poi progetta il percorso di crescita e formazione personalizzato e atto ad implementare le abilità necessarie al ruolo.

Nel lavorare con imprenditori e dirigenti, difatti spesso suggerisco atteggiamenti di apertura alla cultura ed alle conoscenze specifiche, cerco di stimolare la presa di coscienza che un imprenditore, un amministratore delegato, un direttore generale, etc… deve fare per riconoscere che non può essere esperto di tutto, ma ha invece il compito importantissimo di saper scegliere e sapersi affidare a collaboratori, interni ed esterni, utilizzando al meglio le loro competenze.

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Coloro con i quali ho collaborato, che si sono messi in discussione, hanno sempre trovano positivo, l’essere affiancati nella scelta delle persone con ruoli di leader. Verificando quanto siano importanti, formazione e implementazione continua di abilità e competenze, per chi “guida” team, gruppi, squadre, al raggiungimento degli obiettivi.

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In Italia la cultura della preparazione mentale, negli sport di squadra e soprattutto nelle società cosiddette “dilettantistiche”, rimane ancora lontana dall’essere recepita e fatta propria, come valore aggiunto, all’allenamento tecnico/ fisico.

Difatti ad eccezione di club professionisti di diverse discipline, le squadre di categoria “dilettantistica”, non comprendono l’utilità di affiancare un mental coach ad atleti, allenatori, e dirigenti con compiti di gestione delle relazioni interne ed esterne.

Questi club cosiddetti “minori”, gestiscono budget ovviamente inferiori di quelli professionistici, in molti casi però, le cifre sono relativamente considerevoli, perché L’attività che svolgono richiede l’utilizzo, talvolta full time, del direttore sportivo, general manager, o team manager, segreteria, per la gestione, organizzazione, marketing, capacità di comunicazione interna ed esterna. Hanno bisogno spesso di atleti ed allenatori, impegnati in esclusiva ed in una certa misura full time.

Purtroppo la poca conoscenza della materia, non consente a presidenti e dirigenti di queste società, di vedere nella giusta ottica la possibilità di avere nel proprio staff un coach che si occupi di collaborare con i dirigenti per migliorare la comunicazione interna, l’organizzazione, facilitare le relazioni, di allenare mentalmente gli atleti, supportare gli allenatori nella gestione della squadra.

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La poca conoscenza di questi ruoli e della cultura ad essi connessa, a volte si trincera dietro il “problema economico” quando qualcuno propone o si propone per intraprendere questo percorso di formazione e miglioramento.
In realtà rimane un problema culturale e di conoscenza perché l’operato di questa figura nuova, non tradizionale, esula dagli schemi classici di allenatore tecnico e preparatore, viene vissuta come lontana, costosa e adatta solo ai club professionistici.

Bisognerebbe superare le reticenze e comprendere che il costo di un allenatore mentale può essere consono al livello societario in cui opera. Il mental coach di una società professionistica avrà una remunerazione adeguata al livello specifico, mentre chi opera per società “dilettantistiche” percepirà un compenso in linea con quelli consoni a queste realtà.

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Quando parlo di questo argomento con presidenti e dirigenti di club ” dilettantistici”, mi rendo conto che c’è un “desiderio teorico”, della necessità di migliorare e implementare gli aspetti mentali, comportamentali e comunicativi di allenatori, atleti e dirigenti, avendo come fine il miglioramento della “solidità” della società sportiva nel suo complesso, per arrivare poi al raggiungimento di performance e risultati ottimali.

Non si comprende appieno il valore strategico, del costruire cultura di “gruppo” che comprenda, dirigenti, staff e atleti. Il mettere a disposizione di tutti gli atleti ed allenatori, soprattutto giovani ma non solo, strumenti, tecniche ed un supporto al miglioramento personale.

A parole alcuni dirigenti di società si rendono conto che quando in una squadra, si hanno degli atleti di talento, giovani o meno, con possibilità di esprimersi a buoni livelli nel proprio sport, occorre permettere loro di prepararsi in modo davvero integrato, di avere un supporto al miglioramento delle qualità mentali oltre che fisico/tecniche.

Nei fatti, spesso si preferisce investire risorse in altri modi, ad esempio su atleti senior, magari di categorie superiori, accontentandosi di avere un apporto solo in termini di risultati di prima squadra, passeggeri e in fondo costosi.

Porgo a tutti una riflessione sulla utilità che queste risorse investite per primeggiare momentaneamente, producano un reale ritorno per le società sportive ” dilettantistiche.

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A ben riflettere, nei seppur relativamente piccoli bilanci, di queste società, le risorse per avere un allenatore mentale, possono esserci soprattutto se cresce la consapevolezza dell’utilità che questa figura comporta per le società sportive.
Questo tipo di investimento, sul breve/medio periodo, dà un ritorno in termini di valorizzazione degli atleti, dei tecnici e del funzionamento della società con abbattimento di costi e possibili introiti derivanti da:

> formazione di atleti validi
> aumento della qualità comunicativa e gestionale degli allenatori
> crescita del numero di atleti nelle prime fasce giovanili, logica conseguenza del miglioramento dell’offerta formativa che viene valutata come più completa e moderna sia dai genitori, che dai giovani. – (Luigi D’Arienzo)

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Pongo a tutti una riflessione che in questi giorni di mondiale di calcio.

Nei titoli dei giornali, nelle trasmissioni televisive o radiofoniche, a volte anche noiosamente ripetitive, ma questo è la prassi, tralasciando le argomentazioni di gossip e giornalistiche in senso generale, si possono estrapolare le osservazioni “tecniche” più discusse, sospese tra la tattica individuale, tattica di squadra, preparazione fisica, medicina, alimentazione…questo nel prima, durante ed in parte alla fine della avventura della squadra Italiana.

Nel <prima> si parla di preparazione specifica, moduli di gioco, copertura ruoli, alimentazione, preparazione fisica studiata ad hoc.

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Questi gli argomenti che suscitano interesse in chi si occupa di sport, ma anche nei tanti che seguono questo sport in generale che vede gli atleti nazionali come dei “superman”, che giustamente devono essere salvaguardati, gli allenatori come manager con conoscenze eccellenti di conduzione e tattiche, di moduli, di avversari…

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Nel <durante>, la vittoria aumenta le percezioni del prima, si inneggia al lavoro, alle qualità fisiche, tecniche etc…affiorano osservazioni che parlano di “spirito di sacrificio”, altruismo, ma passano velocemente dalla mente, ciò, che conta rimane ancora la tecnica individuale, la tattica, nel caso dei Mondiali in Brasile, la preparazione fisica ottimale.

Se nel <durante> si perde le certezze cominciano a vacillare, i dubbi ovviamente si insinuano, ed allora forse quel giocatore non è adatto, l’allenatore non ha “interpretato bene la partita”, la preparazione forse non riesce a sopperire alle necessità ambientali…affiora qualche commento sull’arbitraggio, o qualche osservazione sul gioco non fluido, sull’impegno non proprio ottimale dei giocatori.

Quando si esce dal mondiale, palesemente tutto è in discussione, la scarsa preparazione, l’incapacità di mettere in pratica il gioco, in limiti tecnici di singoli e di squadra.

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Nel <dopo>, all’uscita dalla competizione, come nel caso dell’Italia, allora ovviamente la preparazione non era centrata, i giocatori non quelli giusti, il gioco impreciso, la conduzione della partita e le scelte poco chiare.

Però se dagli spogliatoi viene riportato ai giornalisti e televisioni, qualche episodio di disaccordo, se qualche atleta scoppia ed esprime dei pensieri, dei giudizi velati o meno, dal suo punto di vista, allora si comincia a parlare di problematiche di gruppo, che pur sembrando ottimale al momento della vittoria in realtà, nascondeva difficoltà di relazione, tra atleti, tra questi ed allenatore. Allora si comincia a discutere di difficoltà caratteriali, di inesperienza in alcuni, di protagonismo in altri…fino al caso particolare che tutti hanno avuto il modo di ascoltare o leggere, di chi porta in evidenza problematiche che comunque si porta dietro come persona.

Mi domando e domando a tutti, chi parla di “costruzione del team” prima della tattica? chi si occupa di “preparazione mentale”, assieme alla preparazione fisica, chi accenna a strumenti di analisi e gestione dell’ansia prima delle gare, oppure post gara. Chi parla di gestione della vittoria e rafforzamento delle motivazioni, capacità di comunicazione tra atleti? Di Flou, di gestione della leadership? Di rilassamento?

Dalle mie esperienze ho constatato che queste cose proprio non fanno parte della cultura del calcio, di molto altri sport e in generale c’è una cultura su questi aspetti stereotipata e di moda.  Certamente le mie osservazioni hanno un punto di vista specifico perché figlio del tipo di attività che ho svolto e che svolgo, ma è indubbio che la cultura della preparazione mentale non è ancora considerata al pari di quella tecnica, tattica e fisica negli sport di squadra.

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La nazionale è vista come punto di arrivo e partenza di tecniche di allenamento, di miglioramento delle metodologie, un esempio ed un input per il movimento sportivo, come la formula 1 per le automobili, dunque finché la preparazione mentale, non entrerà a pieno titolo nelle valutazioni e nelle analisi degli addetti ai lavori ai grandi livelli, difficilmente potrà poi essere considerata per il suo valore agli altri livelli, difficilmente potrà dare il contributo che invece può dare alle persone ed ai team.

Tuttavia se si chiede ad atleti, dirigenti, allenatori, sportivi dilettanti, in generale a chi si interessa di sport anche come spettatore, di esprimere un parere su quanto conta in percentuale la “testa” per un atleta, un allenatore o un team, tutti sembrano d’accordo sulla sua grande importanza ai fini delle buone prestazioni. Tutti d’accordo ma...(Luigi D’Arienzo)

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